GUIDO CHIESA - Imperversa a tutti i livelli il dibattito sulla fase 2 dell’epidemia, ossia sulla data in cui sarà possibile iniziare a rimuovere progressivamente i vincoli imposti all’operatività delle imprese e alla mobilità dei cittadini.
Per come viene posta la questione sembra un dibattito tra due schieramenti "ideologici": tra coloro, cioè, che pongono come priorità la salute dei cittadini e coloro che mettono in cima alle loro preoccupazioni il sistema economico.
Pochi sono coloro che richiamano l’attenzione su un concetto fondamentale, ossia il concetto di rischio. Per il quale è intuitiva la seguente ovvietà: prima si riapre, maggiore è il rischio; più tardi si riapre, minore il rischio.
Estremamente più complesso invece è determinare quale sia invece il Rischio Accettabile, ossia il punto di equilibrio tra la difesa della salute e la difesa del reddito.
A livello nazionale, in base al numero dei casi totali accertati, inclusi cioè i deceduti e i guariti, alla data del 19 aprile, 178.972, la proiezione eseguita con il metodo della curva logistica darebbe come probabile il numero 207.000 dei casi totali previsti alla fine di questa fase dell’epidemia.
L’incremento del numero di tamponi eseguiti sta tuttavia portando a scoprire continuamente un maggior numero di persone infette (ed è questo uno dei motivi del rallentamento della diminuzione dei casi accertati) e, dal punto di vista matematico, fa continuamente slittare la curva verso valori più alti, diciamo 210.000 o 220.000. Fatto, questo, che non ha però riflessi su quanto segue.
Infatti, la curva logistica dà l’interessante indicazione che alla data del 4 maggio potrebbero esserci ancora da scoprire un numero di casi pari al 3,5-6% del totale, di cui la quasi totalità nelle regioni ove più è radicata l’infezione: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto, in ordine decrescente di casi.
Ne consegue che, per quanto è dato conoscere, il 4 maggio dovremmo registrare 700-1100 nuovi casi di contagio e che nel periodo successivo potrebbero rivelarsi sino a 13.200 pazienti con un grado di infezione tale da necessitare di essere presi in carico dal Servizio Sanitario Nazionale (da non confondere con i casi di persone contagiate, che sarebbero molte di più dovendosi includere anche gli asintomatici).
Se ora pensiamo che in Italia l’epidemia non è stata probabilmente causata solo dal paziente 0 di Codogno, ma probabilmente da poche decine o centinaia di persone che avevano avuto contatti con il focolaio di partenza in Cina, il numero sopra riportato, parecchie migliaia, dà la percezione delle probabilità della ripartenza del contagio a seguito dell’apertura del 4 maggio.
Probabilità che variano: (i) dall’assoluta certezza di ripartenza in caso di apertura indiscriminata; (ii) a valori ridotti nel caso di adozione di consistenti misure di sicurezza. Sulle quali tuttavia nessuno ha la certezza che siano messe in atto e che funzionino.
E’ in questo quadro che va quindi posta la domanda di quali siano le misure necessarie per rendere il livello di rischio accettabile.
Dal momento che non sarà possibile ridurre a valori insignificanti, in tempi brevi, le probabilità di infezione, va da sé che dovremo accettare l’idea che, in una qualche misura, il virus continui a circolare. Una convivenza possibile solo a patto che siano messe in atto tutte le misure di sicurezza possibile e che il Sistema Sanitario Nazionale sia in grado di diagnosticare l’infezione in tempo utile da poter applicare i rimedi che saranno via via messi a punto per salvare la vita a quanti più pazienti possibile.
In altre parole il rischio diventa accettabile se, accanto alle misure di prevenzione, esiste una medicina del territorio in grado di evitare il peggioramento delle condizioni dei pazienti e la loro ospedalizzazione. Condizione questa che mette in evidenza il ritardo della Lombardia e del Piemonte. Regioni la cui situazione complessiva consiglierebbe, purtroppo, di prolungare il lockdown sino a fine maggio perché, non potendo garantire ai cittadini il supporto sufficientemente esteso di una medicina del territorio, almeno si garantisca loro la riduzione di un fattore 10 delle probabilità di contagio. Magari allentando i vincoli più difficili da sopportare, come il divieto di fare una passeggiata lontano da casa o l’apertura di aziende ed esercizi commerciali per i quali possa essere garantito il rispetto assoluto delle norme di sicurezza.
Guido Chiesa